Conservare, non restaurare
“Conservare non restaurare” è uno slogan che da Hugo a Ruskin, Morris, Boito, Riegl, Dehio, Dvorak in poi, si ritrova espresso sotto varie forme, in modo ricorrente, nella storia del restauro, inteso come disciplina composita.
Fra i numerosi protagonisti del dibattito sul restauro architettonico, soltanto Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879) e Cesare Brandi (1906-1998) ne hanno dato una definizione, se si esclude l’invettiva contro il restauro di John Ruskin (1819-1900) che potrebbe essere considerata un enunciato in negativo.
Il dibattito riguardo l’organizzazione teoretica della materia è in continuo fermento e il patrimonio artistico-culturale, che una volta soffriva per carenza di cure, oggi rischia di essere travolto da un eccesso di attenzione, soprattutto se l’eterogeneità degli approcci alla disciplina e la confusione sul significato dei tanti termini usati spesso impropriamente, ricadono sul fragile palinsesto del bene, accumulo di cultura materiale stratificata.
Sul piano strettamente etimologico, come ci ricorda Marco Dezzi Bardeschi che ha attivamente preso parte al dibattito prima citato, i termini latini conservatio e restauratio sono ben distinti: il primo risponde all’esigenza primaria di proteggere, salvaguardare, preservare, e quindi salvare dal decadimento, dalla rovina e, alla lunga, dalla perdita, le risorse dell’uomo, i suoi beni materiali. Il termine conservatio si identifica perciò con l’impegno a rispettare e custodire un patrimonio collettivo o personale da tutelare e valorizzare.
Al contrario, il termine restauratio presuppone di riportare il bene in oggetto ad un suo presunto stato originario, eliminando quelle pagine di storia scritte nel tempo sul monumento-documento; dunque in quest’ottica si prevede sempre una decisa trasformazione/mutazione, materiale e morfologica, un ritorno all’indietro (ripristino) che cancella secoli e secoli di storia nel nome della ricerca dell’integrità e compiutezza di un archetipo forse mai esistito.
“Noi dobbiamo guardare all’Architettura nel modo più serio come all’elemento centrale e garante di questa influenza d’ordine superiore della natura sulle opere dell’uomo. Senza di essa si può vivere, e si può anche pregare, ma non si può ricordare.
[…] E se davvero sappiamo trarre qualche profitto dalla storia del passato, o qualche sollievo all’idea di esser ricordati da quelli che verranno, che possano conferire convinzioni alle nostre azioni, o pazienza alla nostra tenacia di oggi, vi sono due compiti che incombono su di noi nei confronti dell’architettura del nostro paese la cui importanza è impossibile sopravvalutare: il primo consiste nel conferire una dimensione storica all’architettura di oggi, il secondo nel conservare quella delle epoche passate come la più preziosa delle eredità.
[…] AFORISMA 31: Il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni
[…] Esso [il restauro] significa la più totale distruzione che un edificio possa subire: una distruzione alla fine della quale non resta neppure un resto autentico da raccogliere, una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto. Non inganniamo noi stessi in una questione tanto importante; è impossibile in architettura restaurare, come è impossibile resuscitare i morti”.¹
Lentamente, nel corso del nostro secolo, sembra si sia arrivati a comprendere che ogni monumento-documento, a qualunque epoca appartenga e con tutte le aggiunte o sottrazioni subite nel tempo, debba essere conservato nel rispetto della stratificazione materica e culturale che ci è stata consegnata in eredità dalla storia. Il compito del restauratore, paradossalmente, non è più quindi quello di restaurare, bensì conservare, consolidare l’esistente, dandogli la possibilità di continuare il proprio percorso di vita. L’obiettivo della permanenza nel tempo del bene deve essere perseguito attraverso opportuni e calcolati nuovi apporti di progetto (funzionali, impiantistico-tecnologici, di arredo), in vista della sua integrale trasmissione in efficienza al futuro.
E allora oggi è possibile dire che si è portati a ritenere la disciplina del restauro, parafrasando Marco Dezzi Bardeschi, come il risultato di due operazioni: quella di realizzare la massima permanenza di materia al contesto come valore prioritario da garantire attraverso il progetto di conservazione, e quella di intercalarvi un calcolato apporto del nuovo di qualità come auspicabile plusvalore nel segno della cultura del progetto contemporaneo, come ulteriore pagina scritta nella vita del bene.
E’ importante evidenziare che per garantire una concreta opera di salvaguardia materiale del bene, al fine di valorizzare l’unicità del documento-monumento, è necessario percorrere un preciso itinerario conoscitivo che passi attraverso lo studio storico e la conseguente analisi del vissuto dell’opera, il rilievo geometrico e materico e la diagnostica delle patologie chimico-fisiche e delle problematiche strutturali del bene stesso.
Solo dopo aver portato a termine questi percorsi sarà possibile per il professionista dedicarsi in modo consapevole al progetto di conservazione dell’esistente, del manufatto e della coralità ambientale, e a quello del nuovo, inteso come valore aggiunto.
¹ Ruskin, J., The seven lamps of Architecture, 1849, traduzione italiana di Pivetti, R. M., Le sette lampade dell’Architettura, Editoriale Jaca Book, Milano, 1982.
Chiara La Ferlita